La riduzione del capitale sociale consiste nell’adeguare la cifra del capitale sociale nominale – costituitosi al momento della formazione della società – al minor valore attuale del capitale reale eroso dalle perdite.
La società non è obbligata a ridurre il capitale sociale fino a quando la perdita dello stesso non sia superiore a un terzo. Ad esempio, se il capitale nominale è 600, la riduzione è facoltativa fino a quando il patrimonio netto non sia sceso sotto 400 per effetto delle perdite (che devono necessariamente superare l’ammontare delle eventuali riserve).
La riduzione del capitale sociale diventa invece obbligatoria quando il capitale è diminuito oltre un terzo in conseguenza delle perdite. Occorre tuttavia distinguere due casi:
Il capitale sociale a causa delle perdite si è ridotto senza intaccare il minimo legale (art. 2446 c.c.)
Gli amministratori, o nel caso di loro inerzia il collegio sindacale, devono convocare senza indugio l’assemblea straordinaria e sottoporle una situazione patrimoniale aggiornata della società (bilancio infraannuale) con le osservazioni dei sindaci entro otto giorni prima dell’assemblea. L’assemblea a quel punto può o deliberare la riduzione del capitale sociale o “rinviare a nuovo” le perdite.
Tuttavia, se entro l’esercizio successivo la perdita non risulta diminuita a meno di un terzo, l’assemblea ordinaria che approva il bilancio deve ridurre il capitale in proporzione alle perdite accertate; in mancanza la riduzione è disposta d’ufficio dal Tribunale su richiesta degli amministratori o dei sindaci.
Il capitale sociale a causa delle perdite si è ridotto andando al di sotto del minimo legale (art. 2447 c.c.)
In tal caso l’assemblea, convocata senza indugio dagli amministratori o in caso di inerzia dal collegio sindacale, deve necessariamente deliberare o la riduzione dal capitale sociale e il contemporaneo aumento ad una cifra non inferiore al minimo legale o la trasformazione della società.
Se l’assemblea non adotta una di queste decisioni la società si scioglie ed entra in stato di liquidazione.
In caso di mancata convocazione dell’assemblea in questi casi sussiste anche una responsabilità in capo agli amministratori o ai sindaci.
Illecito amministrativo di omessa convocazione dell’assemblea
L’art. 2631 c.c., infatti, punisce con una sanzione amministrativa pecuniaria da 1.032 euro e 6.197 euro gli amministratori o i sindaci che omettono di convocare l’assemblea dei soci nei casi previsti dalla legge – tra cui, appunto, quelli regolati dagli arte. 2446 e 2447 c.c. – precisando che il termine entro il quale effettuare la convocazione corrisponde a trenta giorni dal momento in cui gli amministratori e i sindaci sono venuti a conoscenza della riduzione del capitale sociale per perdite.
Reato di bancarotta fraudolenta c.d. “societaria”
Inoltre tale condotta, se commessa con dolo – intenzionalmente – con l’effetto di cagionare il fallimento della società, può integrare ai sensi dell’art. 223, comma 2, n. 2, il reato di bancarotta fraudolenta in capo agli amministratori e ai sindaci, con pene che oscillano tra i tre e i dieci anni.
Avv. Marco Napolitano